domenica 2 giugno 2013

IL NOTAIO SBAGLIA L'IPOTECA: PUO' NON RISPONDERNE

Avv. Simone Fazzari
Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices
Simone Fazzari e Barry Smith Law Group




La responsabilità notarile è un tema portato spesso all’attenzione della giurisprudenza.
La ragione ultima dell’attualità giuridica dell’argomento si rinviene nell’ambivalenza della figura del notaio, che è al contempo pubblico ufficiale cui la legge affida il compito di ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà, attribuire loro pubblica fede, conservarne il deposito, rilasciarne le copie, i certificati e gli estratti e libero professionista nel momento in cui svolge tutte quelle attività che non rientrano specificamente nell’esercizio di una pubblica funzione.
Tale duplicità si riflette inevitabilmente sui rapporti con i soggetti che si avvalgono della sua opera, affidandosi alla sua perizia; nei confronti di questi, infatti, il notaio è vincolato tanto all’osservanza delle norme di legge che regolano la sua pubblica funzione (così l’obbligo di prestare il proprio ministero, ove richiesto, di cui all’art. 27 della l. n.), quanto delle norme civilistiche che impongono un’esecuzione particolarmente diligente della prestazione professionale (così l’art. 1176, secondo comma, c.c. che impone di valutare la diligenza richiesta per l’adempimento di obbligazioni inerenti all’esercizio di attività professionale avendo riguardo alla natura dell’attività stessa). A ciò deve aggiungersi che il notaio si trova in una posizione di terzietà rispetto alle parti, delle quali deve tutelare gli interessi al fine di garantire l’esatta realizzazione degli obiettivi che le stesse si sono preposti; l’obbligazione che egli assume è, secondo le regole generali, un’obbligazione di mezzi e non di risultato, tuttavia tale obbligazione non si esaurisce nell’indagine della volontà delle parti preordinata alla redazione dell’atto pubblico, ma comprende anche le fasi preparatorie e successive alla stipula.
Occorre quindi domandarsi quando e in che misura il notaio possa dirsi inadempiente nei confronti delle parti.
Sotto questo profilo, la sentenza in commento non sembra presentare elementi in grado di innovare il sistema.
Il caso da cui trae origine riguarda un acquisto immobiliare, compiuto dai ricorrenti prima del 1996 e avente ad oggetto un immobile gravato da due ipoteche; a seguito di un errore materiale (secondo la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Corte d’Appello che ha emanato la sentenza impugnata con ricorso per Cassazione) nell’atto notarile una delle due ipoteche era stata indicata con un numero sbagliato, pur avendo il pubblico ufficiale provveduto ad informare il legale delle parti acquirenti di tale circostanza con una lettera certificato. Gli acquirenti avevano quindi agito in giudizio per fare accertare la responsabilità del notaio e ottenere la condanna al rimborso, da parte di questi, di quanto sborsato per la cancellazione dell’ipoteca stessa, ma la loro domanda era stata respinta, tanto in primo quanto in secondo grado.
La Suprema Corte, al pari, rigetta il ricorso proposto dagli acquirenti dell’immobile, ritenendo inammissibile le doglianze avanzate contro la sentenza impugnata, per il primo motivo in quanto non qualificabile nei termini di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 n. 3 c.p.c.), bensì come travisamento dei fatti, censurabile solo ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., ossia con il mezzo della revocazione, per il secondo motivo in quanto carente della necessaria specificità, non essendosi contrapposto in maniera specifica, appunto, alle considerazioni svolte nella sentenza impugnata, avendo la Corte d’Appello, invece, fondato la propria decisione non sull’esclusione di ogni errore da parte del professionista, come lamentato dai ricorrenti, bensì sulla considerazione che tra l'errore materiale del notaio e l'evento di danno lamentato dagli attori in effetti non sussisteva alcun nesso causale.
La prova di tale nesso di causalità si pone quindi, secondo le regole generali, come elemento decisivo nella configurabilità di una responsabilità in capo al professionista.
Resta aperto, invece, il problema di determinare le ipotesi in cui tale responsabilità possa sorgere, ossia la violazione di quali doveri professionali rilevi sul piano contrattuale come fonte che legittima una richiesta risarcitoria.
Da un’attenta lettura della sentenza, tuttavia, si ricava che, ancora una volta, e in coerenza con l’orientamento affermato nella materia de qua, la Corte pone l’accento sul profilo dell’informazione, ossia sul dovere del professionista di mettere le parti a conoscenza dei rischi connessi con l’acquisto, il che si ricollega, in linea generale, al principio dell’affidamento, sempre più spesso richiamato quale principio ispiratore del sistema in materia contrattuale.
Ciò che rileva, dunque, affinché la prestazione professionale del notaio possa dirsi diligentemente adempiuta ai sensi dell’art. 1176 c.c., è che egli abbia rese edotte le parti delle conseguenze giuridiche dell’atto che si sarebbero apprestate e porre in essere, eventualmente richiamando la loro attenzione su quegli elementi di maggiore criticità, quali per esempio la necessità di verificare che la cosa oggetto dell’atto sia effettivamente nella disponibilità della controparte negoziale o l’opportunità di procedere ad ulteriori verifiche al fine di valutare la libertà del bene da pesi o diritti a favore di terzi.
In particolare il tema delle visure ipocatastali, dalle quali è possibile ricavare la situazione giuridica dell’immobile, è stato oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, volte a sottolineare l’importanza che il notaio si occupi di effettuarle o comunque metta al corrente la parte acquirente dell’importanza di conoscere la presenza o meno di formalità pregiudizievoli per l’immobile (Cass. Civ., sez II, 26 gennaio 2004, n. 1330; Cass. Civ. Sez. III, 18 aprile 2005, n.7996). E la prassi notarile che si è affermata negli ultimi tempi conferma la tendenza a porre particolare attenzione a questi profili; così sono ormai rare le ipotesi in cui le parti esonerino il notaio dall’effettuare le visure, clausola questa che in passato ha dato adito a problemi e incertezze e che oggi è viepiù limitata anche dagli interventi del legislatore in materia. Si pensi per esempio al d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella l. 30 luglio 2010, n. 122, che ha modificato l’art. 29 della legge 27 febbraio 1985, n. 52 introducendo un comma uno bis, il quale prevede che gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di diritti reali su fabbricati già esistenti ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Prima della stipula dei predetti atti, il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari.
La norma, pur avendo una portata ridotta solo a determinate categorie di atti (ossia quelli con i quali si costituiscono, trasferiscono o estinguono diritti reali ad eccezione dei diritti reali di garanzia) e di beni (ossia unità immobiliari urbane facenti parte di fabbricati già esistenti) comporta che un controllo sulle visure catastali e sulle risultanze dei registri immobiliari, anche minimo, deve oggi essere effettuato dal notaio, il che garantisce una maggiore ponderazione delle scelte dei contraenti, con positive ricadute nel sistema economico, nonché in quello di amministrazione della giustizia. Acquisti sicuri significano infatti minor contenzioso e maggiore soddisfazione sociale.
In linea generale può quindi osservarsi che la tendenza del legislatore a intervenire con legge nella definizione dei compiti del notaio, anche nello svolgimento di quelle fasi prodromiche e successive al rogito che, come si è visto, rientrano nell’ampio concetto di prestazione notarile, è sintomatica di una volontà di tutela delle parti, che si affidano al notaio non solo e non tanto – forse – in quanto libero professionista, ma piuttosto in quanto garante della legalità dei traffici giuridici.


Avv. Simone Fazzari
Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices
Simone Fazzari e Barry Smith Law Group


INFORTUNI SUL LAVORO: LA COLPA DEL DIPENDENTE NON LIBERA IL DATORE DI LAVORO

Avv. Simone Fazzari
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Il datore di lavoro è sempre responsabile, in caso di infortunio sul lavoro, anche nel caso in cui la condotta del lavoratore sia stata colposa.
Il comportamento, seppur colposo, del dipendente, infatti, non è tale da liberare dalle proprie responsabilità il datore di lavoro.
Così la Corte di Cassazione, nella sezione lavoro, con la sentenza 4 febbraio 2013, n. 2512, non ravvisando, quindi, nel caso de qua, alcuna colpa del prestatore di lavoro.
In primo grado era stata accertata la responsabilità del datore di lavoro e si rigettava la domanda di quest’ultimo nei confronti della compagnia di assicurazione (considerando che per il danno biologico e quello morale non vi sia alcuna copertura assicurativa).
In sede di appello i giudici riconoscono la responsabilità solidale anche del preposto, “colpevole” di non aver verificato i macchinari, costringendo, in tal modo, i dipendenti a lavorare in condizioni precarie.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione con 4 motivi.
Richiamando precedenti in materia (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 1994/2012) i giudici di legittimità hanno precisato che “il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; pertanto, la condotta imprudente del lavoratore attuativa di uno specifico ordine di servizio, integrando una modalità dell'iter produttivo del danno imposta dal regime di subordinazione, va addebitata al datore di lavoro, il quale, con l'ordine di eseguire un'incombenza lavorativa pericolosa, determina l'unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso”.
Ancora per quanto concerneva il rilievo circa la dedotta questione del divieto di cumulo degli accessori, la Corte, nella sentenza in commento, ha precisato che “la domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall'art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perché non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dal secondo comma dell'art. 429 cod. proc. civ. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dall'ari 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991”.
In merito al danno coperto dalla polizza gli Ermellini hanno precisato che la Corte territoriale ha correttamente argomentato che la stessa polizza era stata stipulata precedentemente al riconoscimento normativo del danno biologico (ex D.Lgs. n. 38/2000: l’obbligo di tenere indenne il datore per quanto egli sia tenuto a pagare in base agli artt. 10 e 11, D.P.R. n. 1124/65, non poteva pertanto che riferirsi ai soli tipi di prestazioni allora erogabili, cioè quelli relativi al danno patrimoniale.
L’ultima doglianza nella decisione in commento aveva per oggetto la sussistenza e l’entità deldanno morale; secondo quanto precisato dalla Corte, anche in questo caso l’operato della Corte territoriale è esente da censure: la grave menomazione fisica subita dal dipendente comporta il ristoro effettivo di tutti i danni provocatigli.
I giudici della Corte, quindi, rigettano il ricorso.

Avv. Simone Fazzari
Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices
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CENTRALE RISCHI INTERBANCARIA: ANTICIPATA LA SOGLIA DELLA PERICOLOSITA'

Avv. Simone Fazzari
Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices
Simone Fazzari e Barry Smith Law Group



Il 2013 si è aperto con un nuovo ed importante colpo inferto al sistema bancario italiano, il quale, a fronte di una crisi economica che sta strangolando famiglie ed imprese, continua sovente a dimostrarsi indifferente e senza scrupoli, nei confronti dei malcapitati clienti.
Una delle tante manifestazioni di “strapotere” che caratterizzano le banche italiane, infatti, è rappresentata dall’uso strumentale della cosiddetta “segnalazione” alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia.
La Centrale dei Rischi, com’è noto, è un sistema informativo sull'indebitamento della clientela nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari, vigilati dalla Banca d'Italia. Attraverso tale servizio centralizzato dei rischi, la Banca d'Italia fornisce agli intermediari partecipanti al sistema un' informativa utile per la valutazione del merito creditizio della clientela e, in generale, per l'analisi e la gestione del rischio di credito. Si tratta, dunque, di uno strumento pensato dal Legislatore in funzione di un interesse pubblico, quello della tutela del risparmio, attraverso una valutazione della solvibilità dei richiedenti il credito.
A fronte di tale interesse pubblico, è evidentemente un’opzione che impone estrema cautela nel suo utilizzo, perché  in grado di innescare un “meccanismo a catena”, particolarmente dannoso per il cliente, per una serie di ragioni. In primo luogo, perché determina l’esclusione, dal sistema del credito, di un soggetto, per esempio un’impresa, che fa dell’accesso al credito, una condizione indispensabile per la propria sopravvivenza. In secondo luogo, e a maggior ragione, per il fatto che, l’istruttoria per l’accertamento della posizione o meno di sofferenza del credito, viene effettuata unilateralmente, senza che vi partecipi, in qualche forma di contraddittorio, l’imprenditore interessato.
Le banche, dunque, nel comunicare alla Banca d’Italia le esposizioni debitorie extra-affidamento, così come rilevate dagli e/c bancari, si assumono ogni rischio connesso alla veridicità degli stessi.
Ne consegue, soprattutto, che l’illegittima o errata segnalazione da parte della Banca, costituisce un danno, ingiustamente arrecato al cliente, sotto diversi profili.
Sul punto, esiste una consolidata giurisprudenza. In particolare, è stato stabilito che la responsabilità della Banca segnalante in caso di comunicazione erronea alla Centrale dei Rischi sembra potersi ricondurre, innanzitutto, nell’ambito di una responsabilità da false informazioni, in ordine alla quale è pacificamente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno (ex multis Cassazione civile sez. I, 24 maggio 2010, n. 12626).
Storicamente il Tribunale di Milano, già con l’ordinanza 19 febbraio 2001, ha configurato tale responsabilità sia come extracontrattuale, (da fatto illecito) ex art. 2043 c.c., sia come responsabilità contrattuale, per violazione di norme di comportamento esistenti tra banca ed utente, a partire dagli artt. 1175, 1374, 1375.
Inoltre, la riduzione o persino l’impossibilità di accedere al sistema bancario comporta indubbiamente la riduzione delle possibilità di guadagni futuri, con il rischio di arrivare anche ad una lesione del diritto – costituzionalmente garantito all’art. 41 della Costituzione – di iniziativa economica privata, che, come è noto, si alimenta grazie al credito bancario, l’accesso al quale, a seguito di una ingannevole segnalazione presso la Centrale dei Rischi, è inevitabilmente precluso.
Difatti, occorre in proposito precisare che le banche, con certezza subiscono un condizionamento negativo qualora dall’informativa dovesse emergere l’esistenza di una posizione segnalata “in sofferenza”; in tale atteggiamento si riflette infatti la generale riluttanza (legittima in astratto) degli operatori a concedere credito a soggetti la cui situazione patrimoniale, in certi ambienti economici, sia stata valutata come inaffidabile e precaria.
Non si tratta, però, solo di responsabilità derivante da danno di natura patrimoniale. L’illegittimo blocco della ordinaria situazione generale di credito del ricorrente, e quindi della relativa situazione patrimoniale complessiva, l’impossibilità di ottenere da un giorno all’altro ogni finanziamento o movimentazione del credito indispensabile per l’ordinaria gestione dell’azienda, comporta l’effettivo e scontato “collasso” nella ordinaria gestione della stessa, con irrimediabile danno morale ed economico dovuto alla perdita di immagine, di competitività sul mercato, di ordinaria gestione di cassa, con evidente possibilità di addivenire quindi a posteriori e senza colpa alcuna ma per esclusiva responsabilità della Banca, in quella situazione di insolvibilità che causerebbe inevitabilmente il fallimento dall’azienda e la conseguente perdita di posti di lavoro.
Si determina in questo caso un danno che si ritiene in re ipsa e che legittima pertanto il diritto al risarcimento senza che incomba sul danneggiato l’onere di fornire la prova dell’esistenza del danno.
La Giurisprudenza sul punto è consolidata:
Da quanto innanzi discende la fondatezza della domanda attorea relativamente al danno da illegittima segnalazione presso la Centrale Rischi. Invero, il danno da illegittima segnalazione presso Centrale Rischi si profila sia nell'ipotesi di c.d. errore nella segnalazione di categoria (cioè a sofferenza e non ad incaglio, ecc.) che nel c.d. errore di quantificazione della presunta esposizione. Più grave è il primo errore, in quanto comporta la preclusione del credito, mentre il secondo comporta, nell'ipotesi più lieve, una saturazione dei credito, sino all'effettiva impossibilità di ottenere credito. Ovviamente, nella maggior parte delle volte, gli errori convivono. Il danno da informazione inesatta non si esplica soltanto nella mancata concessione di nuove linee di credito ma anche alla lesione della reputazione personale e commerciale, pregiudicata da un'erronea segnalazione che certamente costituisce causa di discredito del soggetto coinvolto, tanto più ove il discredito avvenga all'interno del sistema creditizio il quale fa fronte comune nella (di norma giustificata) difesa dagli insolventi o da chi è ritenuto tale anche da uno solo degli aderenti. Difatti "la segnalazione di una "sofferenza" non più esistente, conferendo pubblicità interbancaria ad un non reale protrarsi dell'insolvenza del debitore, è destinata ad assumere rilevanza peculiare in un'ottica commerciale ed imprenditoriale, risolvendosi in una complessa vicenda di indubitabile discredito patrimoniale, idonea a provocare un danno anche della reputazione imprenditoriale del segnalato. In tal caso è ipotizzabile una responsabilità dell'azienda di credito verso il cliente ingiustamente, e quindi antigiuridicamente, segnalato alla Centrale dei Rischi"(Trib. Bari, sez. I, G.U. dott. Cirillo, sent. del 22 dicembre 2000). Si determina in questo caso un danno che si ritiene in re ipsa e che legittima, pertanto, il diritto al risarcimento senza che incomba sul danneggiato l'onere di fornire la prova dell'esistenza del danno (Cass. civ., Sez. III, sent. n, 4881 del 19/01/2001; Cass. civ. sent. n. 1103 del 05/11/1998). Tribunale di Bari, Sez. Dist. di Rutigliano, Dott. Nicola ACHILLE, Sent. n. 165 del 26 marzo 2012 (cfr. anche Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, sent. n. 515 parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Lecce Sez. Maglie –Dott. Angelo Rizzo, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di Lecce Sez. Maglie – Dott. Angelo Rizzo, Sent. 246 del 12 luglio 2010, tutte edite in www.studiotanza.it)
La segnalazione alla Centrale dei rischi presso la Banca d’Italia, a cui tutto il sistema bancario è tenuto per legge, risulta quasi sempre del tutto illegittima poiché il saldo effettivo è differente da quello denunciato dalla Banca: il danno è pari a quello dell’illegittimo protesto e per la quantificazione dello stesso spesso l’utente non può che rimettersi alla Giustizia. La prova del danno da errata segnalazione a centrale dei rischi è, infatti, difficile da provare: le banche non rilasciano alcuna attestazione di diniego dell’affidamento.
Tuttavia è altrettanto pacifico che una segnalazione negativa in Centrale determini la chiusura del credito: l’imprenditore che riesce a documentare i danni è rarissimo. Ecco perché la Magistratura più obiettiva ricorre, oramai, ad una liquidazione equitativa del danno da erronea segnalazione alla Centrale dei rischi.
La Giurisprudenza di legittimità ha, sul punto, sottolineato più volte “l’inevitabile perturbazione dei rapporti economici, e una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore del soggetto e del suo patrimonio alla quale il risarcimento deve essere commisurato" (…). Pertanto è corretto anche il ricorso alla liquidazione  del danno con criteri equitativi, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., ammissibilesecondo la giurisprudenza di legittimità qualora l'attività istruttoria svolta non consenta di dare certezza alla misura del danno stesso, come avviene quando, essendone certa l'esistenza, risulti impossibile o estremamente difficoltoso provare la. precisa durata del pregiudizio economico, subito” (Cass. 19883/2005; 8271/2004; 188/1996).
Se, dunque, quanto sopra detto riposa su una consolidata Giurisprudenza, soltanto in parte indicata in questa sede, lo stesso non può dirsi per quella che può considerarsi l’ultima“frontiera” della lotta allo strapotere delle banche, che in questa sede è fondamentale evidenziare per la sua portata straordinariamente innovativa.
Il crescente sviluppo della sensibilità della Giurisprudenza sull’importanza della segnalazione alla CR ha comportato, anche con riferimento alla regolamentazione MIFID, la consapevolezza che la comunicazione di un erroneo sconfino, superiore ai 180 giorni (c.d. past due) crea un evidente danno al cliente.
Nasce, così, l’esigenza di evitare all’origine danni all’impresa; danni certi ma, come si è visto, difficilmente dimostrabili, che inevitabilmente conducono verso il disdoro commerciale con conseguente innalzamento del costo del denaro, sia presso l’istituto segnalante che verso l’intero sistema creditizio. Questa iniziale patologia comporta attraverso la riduzione del credito e l’aumento delle competenze e del costo del denaro una, spesso irreversibile crisi aziendale, cge porta alla c.d. sofferenza.
Insomma, la Giurisprudenza ha capito che “la medicina” è efficace se somministrata all’inizio della patologia: una cura tardiva, spesso, è inutile: infatti, un cliente segnalato “a sofferenza” è un cliente praticamente privo di credito e vita aziendale.
Il Tribunale di Lecce – Sez. distaccata di Galatina, con decreto, inaudita altera parte,emesso in data 20 dicembre 2012 dal Dott. Alessandro Maggiore, ha accolto il ricorso proposto ex Art. 700 cpc, dalla società M. Srl, in relazione ad una segnalazione alla Centrale Rischi compiuta dalla Banca Monte dei Paschi S.p.A. con riferimento ad un erroneo sconfino, superiore ai 180 giorni (c.d. past due); decreto confermato il successivo 8 gennaio 2013.
Dalle risultanze processuali è emerso che tale segnalazione sia stata assolutamente illegittima in quanto basata su un saldo dì e/c bancario erroneamente (e dopo lo svolgimento della CTU dolosamente) quantificato, creando un gravissimo pregiudizio, a breve irreparabile, a M. Srl, derivante sia dal vertiginoso aumentare delle competenze delle altre banche con cui intrattiene rapporti la ricorrente (dovute all'abbassamento del rating aziendale conseguente a simile segnalazione), che dalle sempre più pressanti minacce dì revoca degli affidamenti.
Il ricorso ex art. 700 c.p.c., com’è noto, si qualifica come una misura cautelare con funzione anticipatoria degli effetti della decisione di merito. Tale ricorso è subordinato alla sussistenza di una serie di presupposti, tra i quali la dimostrazione da parte del ricorrente del periculum in mora (Trib. Catania, ord. 5 gennaio 2004), del fumus boni iuris (Trib. Milano, ord. 9 febbraio 2005), della irreparabilità, gravità ed imminenza del danno (Trib. Napoli, ord. 24 aprile 2000).
Nel caso di specie, il fumus boni iuris risultava acclarato da una pacifica e consolidata Giurisprudenza sul punto, mentre l'esistenza, tanto del periculum in mora quanto dell’irreperabilità, gravità ed imminenza del danno, apparivano evidenti, tanto che i ricorrenti parlavano correttamente di una società seduta “su una bomba ad orologeria”.
Infatti entro il 25 di dicembre la Banca Monte dei Paschi di Siena avrebbe comunicato il falso saldo relativo al 30 novembre, mentre il 25 gennaio avrebbe comunicato il saldo relativo al 31 dicembre 2012: in questo minimo lasso di tempo vi era il gravissimo pericolo, rappresentato dal persistente sconfinamento, in grado di determinare un mutamento in peius dello status della ricorrente, con la conseguente perdita di ogni credito bancario.
Anche in questo caso, dunque, gli elementi presenti integravano una responsabilità, come evidenziato sopra, non solo da danno patrimoniale, ma anche da danno in re ipsa, conseguente ad una potenziale e pericolosissima esclusione dell’impresa dalla possibilità di accesso al credito bancario.
Sulla scorta, dunque, delle osservazioni dei ricorrenti, il GOT Maggiore, rilevando la presenza dei requisiti sopra citati, di cui all’art. 700 cpc, ha emesso un decreto particolarmente importante, confermandolo successivamente con ordinanza datata 08/01/2013, con la quale ha, inoltre, respinto tutte le istanze sollevate dalla controparte con la propria memoria.
La Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., è stata condannata all'”immediata rettifica della segnalazione effettuata e delle successive da effettuarsi alla Centrale dei Rischi presso la Banca d'Italia”.
Gli elementi di positività di tale pronuncia sono, dunque, ravvisabili innanzitutto, nella conferma di un orientamento giurisprudenziale oramai dominante, che configura il danno derivante da illegittima o erronea segnalazione alla Centrale Rischi, come danno dotato di una “autonoma dignità” rispetto a quello più prettamente di natura patrimoniale.
E, aspetto probabilmente ancora più rilevante, nella possibilità di ottenere una sua, autonoma, individuazione, in una fase, quella cautelare, significativamente antecedente a quella della pronuncia di merito. L’opzione offerta dall’art 700 cpc., nella “veste giuridica” sopra esposta, consente dunque di tutelare un utente rispetto ad un’ipotesi, quella dell’ illegittima esclusione dall’accesso al credito motivata sulla base di presunte esposizioni debitorie extra-affidamento, in grado di produrre, nelle more dell’iter processuale, conseguenze fortemente pregiudizievoli e, verosimilmente, irreparabili.
Si tratta, in definitiva, di un provvedimento che conferma una linea evolutiva del diritto bancario (che cerca sempre di più di staccarsi dal “diritto delle banche”)  sempre più attento alle posizioni soggettive di clienti, risparmiatori e imprese, attraverso un uso consapevole ed efficace, da parte di una certa avvocatura, degli strumenti giuridici e processuali offerti dall’ordinamento, e in virtù di una Magistratura che dimostra sempre maggiore sensibilità rispetto alle dinamiche negoziali tra utente e banca, caratterizzate, com’è noto, da una tradizionale disparità di potere contrattuale tra le parti contraenti.


Avv. Simone Fazzari
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MINORI ADOTTABILI: AL VIA LA BANCA DATI

Avv. Simone Fazzari
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È stato firmato dal capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile, Caterina Chinnici, e dal direttore generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, Daniela Intravaia, ai sensi dell'art. 40 della legge 28 maggio 2001 n. 149, il Decreto Dirigenziale che istituisce la Banca Dati relativa ai minori dichiarati Adottabili, nonché ai coniugi aspiranti all'adozione nazionale ed internazionale. La BDA sarà attiva nei prossimi giorni, con decorrenza dalla data di pubblicazione del provvedimento istitutivo.
La banca dati è costituita presso il Dipartimento per la Giustizia Minorile ed è organizzata in modo da assicurare l'integrità, la riservatezza e la disponibilità dei dati, nonché l'identificazione dei soggetti che accedono agli stessi previa registrazione con annotazione dei dati identificativi dell'utente.
Aggiornata con cadenza trimestrale, la banca dati contiene i seguenti dati personali: quanto ai minori dichiarati adottabili, dati anagrafici, condizioni di salute, famiglia di origine ed eventuale esistenza di fratelli, attuale sistemazione, precedenti collocamenti, provvedimenti dell'autorità giudiziaria minorile, dati contenuti nei certificati del casellario giudiziale per i minorenni e ogni altra informazione idonea al miglior esito del procedimento; quanto ai coniugi aspiranti all'adozione nazionale e internazionale e persone singole disponibili all'adozione, dati anagrafici, residenza, domicilio, recapito telefonico, stato civile, stato di famiglia, dati anagrafici dei genitori della coppia o della persona singola aspirante all'adozione, condizioni di salute, condizioni economiche, caratteristiche socio demografiche della famiglia, motivazioni, altri procedimenti di affidamento o di adozione ed il relativo esito, dati contenuti nei certificati del casellario giudiziale e ogni altra informazione idonea al miglior esito del procedimento.
L'accesso alle informazioni contenute nella banca dati e il rilascio di copie ed estratti è riservato ai magistrati dei tribunali per i minorenni e delle procure presso i tribunali per i minorenni cui sia attribuita la trattazione dello specifico procedimento di adozione nonché ai magistrati degli altri uffici della giurisdizione minorile autorizzati dal capo dell'ufficio. La consultazione è inoltre consentita al personale appartenente agli uffici della giurisdizione minorile, previa autorizzazione da parte del capo dell'ufficio, nonché agli interessati, con riferimento ai soli dati personali.


Avv. Simone Fazzari 
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MORTE DEL CONIUGE: SI AL DANNO MORALE ANCHE SE SEPARATO

Avv. Simone Fazzari
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È risarcibile il danno morale patito dal coniuge per la morte dell'altro anche se vi sia tra la parti uno stato di separazione personale, purchè si accerti che l'altrui fatto illecito (nella specie il sinistro stradale causa del decesso) abbia provocato nel coniuge superstite quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara.
Così si è espressa la Suprema Corte nella sentenza 17 gennaio 2013, n. 1025.
Ad avviso del giudice di legittimità, la separazione in sè e per sè non è di ostacolo al riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale. E', tuttavia, necessario dimostrare che, nonostante la separazione, i coniugi siano legati da un vincolo affettivo particolarmente intenso. Nella specie, esso è stato individuato nella presenza di un figlio e nel breve lasso di tempo (1 mese) intercorso dalla frattura della vita coniugale. Con la conseguenza che l'evento morte ha determinato sicuramente un pregiudizio in capo al superstite.
Pertanto, anche se non vi era più un progetto di vita in comune, il precedente rapporto coniugale e la permanenza di un vincolo affettivo legittimano la richiesta di risarcimento.
Tuttavia, è incensurabile in sede di legittimità la valutazione operata dal giudice dell’appello nel senso di ridurre il risarcimento spettante all'ex coniuge a 25mila euro, in luogo di 84mila euro liquidati in primo grado, tenuto conto del “dato obiettivo della separazione” e della “già cessata convivenza” e conseguente valutazione secondo cui la perdita del coniuge “risulta indubbiamente meno sconvolgente rispetto al conseguito assetto di vita”.
La Corte coglie l’occasione per richiamare i principi enunciati dalle Sezioni Unite e dalle Sezioni semplici in materia d'interpretazione del giudicato per cui “il giudice di legittimità deve accertare l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende anche al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta loro valutazione ed interpretazione mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dalla interpretazione data al riguardo dal giudice del merito: ciò in ragione della riconosciuta natura pubblicistica dell'interesse al rispetto del giudicato; della ritenuta indisponibilità per le parti dell'autorità di quest'ultimo; della ravvisata identità dell'operare dei due tipi di giudicato, interno ed esterno; e della inclusione delle correlative questioni nella sfera delle questioni di diritto piuttosto che in quella delle questioni di fatto”.
Inoltre, il giudicato è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, a elementi normativi astratti, con la conseguenza che la sua interpretazione deve essere trattata alla stregua dell'interpretazione delle norme piuttosto che alla stregua dell'interpretazione dei negozi e degli atti giuridici. Infine, costituendo l'interpretazione del giudicato operata dal giudice del merito una quaestio iuris, la stessa è sindacabile, in sede di legittimità, non per il mero profilo del vizio di motivazione, ma nella più ampia ottica della violazione di legge; e gli eventuali errori d’interpretazione del giudicato rilevano quali errori di diritto. Pertanto, non sono neanche prospettabili le censure relative alla violazione dell'art. 1362 c.c. e segg., non essendo, alla luce degli indicati principi, l'interpretazione del giudicato riconducibile ai canoni ermeneutici contrattuali.

Avv. Simone Fazzari
Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices
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